SERGIO MARI DA CALCIATORE AD ATTORE E SCRITTORE. PRESENTIAMO, AL BELLO DELLO SPORT, IL SUO TERZO LIBRO
Ci siamo incontrati alla presentazione del primo album del gruppo salernitano Vico Masuccio ed abbiamo scoperto di avere delle idee in comune sullo sport e sul calcio, anzi lui ha dichiarato: “Sono contento di non essere rimasto nel mondo del calcio”.
Ma, il calcio è stato il suo mondo per tanti anni ed oggi che la sua metamorfosi lo ha portato in un mondo completamente diverso ha già pubblicato tre libri. Con lui percorriamo, velocemente, i primi due per cercare di approfondire il tema portante della sua terza opera.
Dopo ‘Quando la palla usciva fuori’ e ‘L’odore del borotalco’ ecco che arriva la tua terza opera, ci vuoi spiegare il tuo percorso e la tua idea?
“L’odore del borotalco, romanzo che mi ha fatto penare nello scriverlo (ma gioia immensa per averlo distribuito immediatamente), mi sono imposto di alleggerirmi e alleggerire il lettore con storie brevi di calcio, ma che spaziano anche in cose che di calcio non hanno nulla a che fare”.
Esiste un filo conduttore nelle tue storie?
“Sicuramente il pallone, con la gioia del prima e del durante calciatore e i suoi dolori del dopo, poi c’è la musica che lega molti capitoli”
La musica?
“Sì, la musica, i dischi, il vinile, la radio a modulazione di frequenza, i concerti sognati e poi visti dal vivo. Titoli di ellepì, gruppi storici che ho amato e tanti episodi, anche episodi esilaranti”.
Ci puoi raccontare qualche episodio che racconti?
“In alcune pagine questo libro diventa un manuale di come si – arraffavano – i dischi in un negozio senza pagarli, perché due ragazzi mettevano testa e occhi sul giradischi e in silenzio ascoltavano interi ellepì”.
Cosa ascoltavi e cosa ascolti ancora?
“Dei Genesis con Peter Gabriel, i Pin Floyd, i Van Der Graf, ma anche di Mina, Lucio Dalla, Tony Astarita (ride divertito)”
Chi era il tuo complice ed è un personaggio reale o di fantasia?
“Teo, esistito davvero nella mia adolescenza. Nel libro simboleggia la fanciullezza, il termometro di quando un periodo della tua vita sta per finire. Teo mi ha insegnato due cose importanti: a mangiare i pavesini e a introdurmi nella musica progressiva di quegli anni”.
Esiste un modo particolare per mangiare i pavesini?
“Certo! Mai addentarli, solo rosicchiarli, piano, lenti”.
Il calcio però non è mai sparito completamente dalla sua vita, l’ha segnata, l’ha resa diversa pur provando a chiuderlo in un armadio, ma… “invece l’ho riaperto quell’armadio e sono venuti fuori ricordi, imprese, episodi singolari. Nessuna nostalgia, s’intende, ma una cosa va detta: la vita ti fa accompagnare spesso da persone che tu al momento hai ritenuto normali, poi, invece, col tempo ti accorgi che sono state persone straordinarie e che gente simile non la rincontrerai mai più”.
In particolare?
“Piero Santin che mi ha fatto esordire in B a 18 anni, un pazzo; un altro folle che mi mette in campo in C1 è stato Corrado Viciani e che dire delle chiacchierate con Massimo Giacomini, mio allenatore quando entrambi al Ciocco eravamo disoccupati? Se amo ricordarli è soprattutto per il loro spessore umano che hanno o hanno avuto. Dei giocatori poi, come dimenticare Luciano Carafa, Patrizio Chiaiese, Claudio De Tommasi, Peppe Catalano”.
Vogliamo approfondire i temi della tua terza opera?
“Ho cercato di essere comico, surreale, poetico; anche triste però, e spero mai nostalgico. Le scuole calcio aiutano tanto e soprattutto i mister oggi sempre più attenti a portare i loro piccoli atleti mezzi sportivi che non sono solo il pallone, ma anche libri, film, spettacoli. Questo anche perché si è capito che il calciatore deve essere, assolutamente, più colto. C’è tanta strada da fare. I soldi facili, l’appagamento, le compagnie, le ragazzine, possono allontanare l’atleta da interessi alti. E’ un errore grave. Saper parlare, sapersi muovere anche in altri ambiti, sapersi comportare, ma soprattutto leggere le situazioni che la vita stravolge spesso, saper cambiare direzione negli obiettivi nella vita, è legato molto alla – cultura – che hai saputo coltivare”.
Un tuo aneddoto?
“1987, Cento di Ferrara, cena infrasettimanale insieme alla squadra. A mister Specchia chiedo a voce alta se l’indomani avrei potuto assentarmi per la cena, quella che facevamo noi scapoli tutti insieme e tutte le sere. Chiedendomi il perché lo informo che a Ferrara, al teatro comunale, avrebbero dato la prima del film ‘Rosa Luxemburg’ di Margareta Von Trotta, allora la mia regista preferita, e che ci sarebbe stata anche lei in persona per un dibattito finale. Quella sera mi guardarono come un marziano, ma era solo un bel film e Margareta una grande, molto più brava di me in regia”.
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