Da un lato troviamo un articolo (QUI) sulla crisi nera del tennis in Italia.
Dall’altro la volontà politica di portare “a tutti i costi” gli ATP Finals a Torino, come ampiamente riportato da vari articoli di informazione, incluso QUESTO.
Da un lato, dunque, la riconversione dei campi da tennis in paddle, come già avvenuto negli anni ’90 con la trasformazione da tennis in calcetto, più redditizio e quindi capace per un circolo di tirare a campare; dall’altro 78 milioni di euro per un evento, prestigioso sicuramente, ma autoreferenziale perché fine a se stesso.
Sembra una enorme contraddizione, lo scontro tra due mondi contrapposti.
Il mondo reale, fatto di persone che tra mille difficoltà si affannano quotidianamente per praticare un’attività sportiva, per il proprio benessere, per la crescita culturale e la trasmissione di valori sani ai propri figli, insieme con il mondo fatto da gestori di circoli e strutture con quello di maestri e istruttori di tennis che ogni giorno si fanno il culo in campo, estate e inverno, privi di tutela previdenziale.
Dall’altro, il mondo luccicante dello spettacolo.
Utilizzando i canoni Debord, si tratta di uno sdoppiamento nel quale la produzione dello spettacolo nella società reale produce un’inversione della realtà stessa, poiché quando una realtà è completamente invasa dallo spettacolo e dalla sua onanistica contemplazione viene assorbita (sussunta è il termine sociologico) al punto che l’unica realtà “vera” diviene quella spettacolare.
Assistiamo inermi alla sparizione del reale, dei campi da tennis, dei tennisti, delle professionalità dei maestri costretti a mettere annunci su Groupon, ed esistiamo solo in eventi cui non partecipiamo più come parte attiva ma da spettatori passivi, incollati alla poltrona.
E’ il nostro personale black mirror, un capovolgimento di paradigma arrivato al suo acme distopico.
Una sconfinata tristezza ci pervade di fronte al tennis che, spettacolarizzato oltre misura, vive sullo schermo di canali tematici al costo 10 milioni di euro/anno, oppure in eventi da 78 milioni, mentre in campo muore d’inedia.
Fabrizio De André, in una delle sue rare interviste, una volta disse: “Non canto mai in pubblico perché non sono un uomo da spettacolo. Penso che quando una persona si presenta in pubblico, sia che reciti, canti o balli, deve fare uno spettacolo. Ed io non sono pronto per questo“.
Buona visione.