Home / ALTRI SPORT  / L’insostenibile leggerezza dei campi in terra rossa

L’insostenibile leggerezza dei campi in terra rossa

La prima volta che ho messo piede su un campo in terra rossa è stata all’età di otto anni, impugnando una racchetta di legno alta quasi quanto me. Il campo, proprio sotto casa mia, era talmente sotto che potevo tuffarmi dalla finestra se c’era una piscina al suo posto. E per fortuna non c’era.
Ho giocato su quel campo in tutte le condizioni possibili e (in)immaginabili: arso dal sole come un deserto oppure umido come la neve in primavera; con troppa terra da sembrare una spiaggia o con il pietrisco fuori a macchia di leopardo; stupendo come un orto appena arato o con le righe alte due centimetri.
Non conoscevo altri tipi di campi, tranne quelli cosiddetti in “mateco”, lastroni di gomma uniti a colla nelle giunture, talmente rari che se capitava di giocarvi era un supplizio non poter scivolare sulla palla corta o recuperare in allungo “over open stance” il colpo angolato dell’avversario.
Poi i primi campi in erba sintetica, mai amata dai tennisti, ch’ebbero scarsa fortuna per la coincidente crisi del tennis alla fine degli anni ’80, obbligando i proprietari a riconvertirli per il calcio a cinque che iniziava ad essere di gran moda.

Le nuove tecnologie hanno successivamente modificato in modo radicale la nostra vita quotidiana e il settore del tennis, una vera e propria rivoluzione dei materiali che ha trasformato in soli 10-15 anni questo sport a partire da corde e racchette passando ovviamente per le superfici di gioco.
Nuove resine e soluzioni costruttive rendono oggi la realizzazione dei campi non solo belli alla vista con tutte le colorazioni per IN e OUT, ma rendono possibile la variazione ad libitum della morbidezza. A tal proposito vale forse la pena ricordare che un campo più o meno morbido è determinato dall’angolo di rimbalzo della palla: più è basso e più incide sulle articolazioni del ginocchio a seguito dei continui piegamenti necessari per colpire in maniera efficace.

Sono qui dunque a sfatare il mito della “leggerezza” del campo in terra rossa, che la vulgata vuole nella superficie in se medesima, mentre è invece insita nella tenuta e quindi nelle condizioni del campo stesso.
Oggi il novanta per cento dei campi in terra rossa è mantenuto in modo approssimativo, perché le condizioni ottimali pretendono sacchi di terra rossa e grigia, rastrelli, tappeti, rullaggi ed ettolitri di acqua per innaffiare, operazioni-base che necessitano di braccia da lavoro, tempo, fatica e soldi anche solo per un campo.

Se moltiplichiamo per il numero di campi presenti in un circolo avremo che questo tende inevitabilmente a risparmiare sulla manutenzione per far quadrare i conti di uno spazio che rende il 60 per cento in meno ogni ora di gioco, con un conto molto facile da fare se si pensa che in un’ora di calcetto entrano dieci persone mentre a tennis giocano in quattro nella migliore delle ipotesi.
Aggiungiamo poi il non trascurabile dato che su questa superficie di circa seicento metri quadri non è possibile fare altro, come delle banali capriole a terra o giochi con i bambini, o la lezione di yoga e pilates per le signore, mettendo in evidenza l’assoluta diseconomia di uno spazio che nel caso della terra rossa ha una resa per metro quadro prossima allo zero.
Uniamo a queste problematiche quelle di natura tecnico-tennistica: zone del campo con più terra ed altre con meno, oppure righe sollevate e viscide che lo rendono estremamente insidioso con relativo aumento del rischio traumi distorsivi e infiammazioni ai tendini; buche e pietrisco che rendono imprevedibile il rimbalzo con conseguente sagra (e maestria) dell’improvvisazione; da non trascurare, infine, gli abiti e le scarpe perennemente sporchi di terra che a loro volta inzaccherano ovunque, per la gioia di tutte le persone che conoscono il problema: tutti fattori che incidono negativamente su un tipo di superficie che – dal mio punto di vista – è divenuta oramai ampiamente diseconomica, insidiosa, imprevedibile ed obsoleta.
Nessun vantaggio? Oltre al fascino puramente estetico “old style”, uno soltanto: il segno lasciato a terra dal colpo appena sferrato riduce (relativamente) la litigiosità la quale a sua volta è inversamente proporzionale al livello dei giocatori in campo.
So che i puristi, i tradizionalisti ed i conservatori storceranno il naso di fronte a queste righe, ma se la cultura è apertura al nuovo e non anacronistico attaccamento al vecchio, allora è di tutta evidenza che mantenere oggi seicento metri quadri in terra rossa è come avere un’auto o una moto storica: bella a vedersi ma molto poco eco-sostenibile perché ancorata al secolo scorso per inquinamento e consumi.
Auspico che siano per primi i giocatori a chiedere che questi spazi, un tempo riservati a pochi, possano aprirsi mediante adeguate e opportune modifiche alla superficie di gioco al fine di sollecitare l’avvicinamento alla pratica sportiva per il maggior numero possibile, perché avvicinarsi allo sport, qualunque esso sia, tende ad abbattere i muri e ad eliminare le barriere.

adrianopignataro@libero.it