LO SPORT, METAFORA DI UNA VITA MENO INGIUSTA
di Giovanna Di Giorgio
È empatia. È come essere in acqua, sul tatami, in pedana, in campo. È come impugnare il fioretto, reggere la carabina, puntare l’arco, avere in testa la cuffia o stringere tra le mani la racchetta, afferrare lo sterzo della bici, calciare o agguantare una palla, avere sotto i piedi il trampolino oscillante o la sbarra immobile e minacciosa. È come essere lì, concentrati, affaticati, con l’acido lattico in agguato, l’ultima goccia di ossigeno nei polmoni e l’adrenalina che va in circolo insieme all’ansia. Con alle calcagna una fottuta paura di non farcela e nel petto la voglia dirompente di non sbagliare, in un equilibrio che più precario non si può. È immedesimazione totale dello spettatore nell’atleta di turno. Un’empatia che solo lo sport permette.
Già, perché lo sport è vita. Ma una vita meno ingiusta. È sofferenza, sacrificio, rinuncia. E lo è per tutti, nessuno escluso. Puoi anche portare un cognome illustre, ma se non butti il sangue la medaglia al collo non la metti. Lo sport è una vita in cui la fortuna da sola non basta e la raccomandazione lascia il tempo che trova. Se sei il migliore vinci, alla faccia del blasone e dei cognomi altisonanti.
È empatia quella che scatta e che proietta lo spettatore in un microcosmo che dura il tempo di una gara. Pochi secondi o alcune ore che mettono in scena la vita e le sue possibilità. Una vita più meritocratica. Meno iniqua. Una vita in cui c’è spazio anche per le favole. L’empatia nasce da lì. Dal bisogno di fuggire dall’ingiustizia quotidiana, di rifugiarsi in un mondo che ha i blocchi di partenza allineati per davvero e un cronometro che è lo stesso per tutti. Niente invidia, c’è solo ammirazione per chi trionfa con il sudore, faticando, penando addirittura. Per chi, nel duello tra paura e voglia di farcela, lascia dominare la seconda. Per chi conquista un titolo senza che gli venga regalato nulla. E c’è anche gratitudine per chi, riuscendo a riscattarsi, affranca lo spettatore che si è immedesimato. Così l’urlo liberatorio si fa strada, fino a squassare le corde vocali, in un grido che, almeno per un attimo, sembra rimettere a posto i conti con la realtà. I sorrisi si allargano sul volto, le lacrime scendono giù sincere. Per un attimo, atleta e spettatore si fondono e si confondono. In quell’attimo c’è ordine nel caos dell’universo.
Comincia oggi, con “Filosoficamente lo sport”, un viaggio nella vita attraverso lo sport, appunto. Senza nessuna pretesa. Solo con la speranza di attingere qualche riflessione da un universo che ha tanto da insegnare…